da "Pavia In Tasca" - maggio 2009
MARCO LODOLA alla vigilia della Biennale di Venezia – Luce agli occhi dei Pavesi
Chi non conosce Marco Lodola? Se al Pavese-medio, non particolarmente interessato all’arte, fai i nomi di Hermann Nitsch o di Paul Jenkins, di Bengt Lindstrom o di Daniel Spoerri, fior d’artisti presenti in prestigiosi Musei e collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, la pupilla prende forma di punto interrogativo. Se nomini Marco Lodola, l’occhio s’illumina come le sue scatole luminose.
In questa elementare verità in fondo è già riassunto tutto : la sua popolarità anche “in patria”, l’immediata riconoscibilità delle sue opere per chiunque, la già acquisita consacrazione, che rende quasi irrilevante l’imminente partecipazione alla Biennale di Venezia (e per capirci, c’è chi sarebbe pronto a uccidere per esser al suo posto). Pavese di Dorno, all’età di 54 anni - portati con la freschezza d’un ragazzo (gliene daresti 20 in meno), Marco Lodola ha già vinto la sua partita. Può godersi tutto quello che verrà.
Chi è interessato ai dettagli, può legger quanto segue.
PAVIA – E’ qui, a portata di mano, in un capannone da archeologia industriale di via Riviera. Tralasciamo pure i testi critici e le prestigiose esposizioni che importano agli “addetti ai lavori”. Le sue creazioni son sparse a dar luce per il mondo, da Montecarlo a Palermo a San Paolo del Brasile. Primo occidentale ad esser invitato dal governo della Repubblica Popolare Cinese, nel 1994, ad esporre nella città imperiale di Pechino - l’evocativa “Città proibita”. Ha coltivato geniali collaborazioni industriali, nel solco della tradizione futurista a cui si richiama, con Swatch, Coca Cola, Harley Davidson, Ducati, Dash, Carlsberg, Nonino, Illy, Valentino, Coveri, Fabbri, Shenker, Moretti e Seat tra gli altri, che l’han portato nelle case e sotto gli occhi di tutti. Scenografie televisive, loghi pubblicitari, collaborazioni con scrittori contemporanei e musicisti (gli 883 di Max Pezzali, Timoria, Jovanotti, Andy dei Bluvertigo, Syria); disegna la Maglia Rosa per l’88mo Giro d’Italia e un manifesto per le Olimpiadi invernali di Torino. Squilla il cellulare : è Jovanotti; Red Ronnie ha appena messo giù.
Eppure ti affacci alle grandi vetrate del capannone e vedi Pavia; in lavorazione c’è l’insegna per l’Antica Trattoria di Calvignano, un bel posto da mangiate in Oltrepo. Con due parole in dialetto è Lodola stesso a riportarti a casa dal giro del mondo : “Pavia mi piace molto per una qualità assoluta : suceda gnent.”
Comincia così la chiacchierata a un mese dalla Biennale di Venezia.
Luca Sforzini : “Marco, dì la verità : te ne frega qualcosa della Biennale?”
Marco Lodola : “Mah, l’unica felicità è andarci con Luca Beatrice (il curatore - con Beatrice Buscaroli - del Padiglione Italia 2009,ndr), un amico. L’entusiasmo l’ho perso 20 anni fa, quando Renato Barilli non m’invitò – ci rimasi di merda. Ormai ci vado un po’ da “vecchio coglione”. Hai presente Arbasino ? Si passa dalla grande promessa al solito stronzo al vecchio coglione. In realtà l’ invito mi lusinga, ma ho capito che il percorso da fare è un altro : chi ci andò allora al posto mio è praticamente sparito, segno che andarci da ragazzini è un rischio.”
L.S. : “Come hai cominciato?”
M.L. : “Coi neon. Ho capito tutto da ragazzino a Las Vegas, una città che funziona solo dopo il tramonto : il più grande museo a cielo aperto che illumina la notte. “Catturare la luce nei quadri”, tutti ci han provato : Caravaggio, Seurat, i pointillistes...li ho ciulati tutti, io la luce l’ho proprio messa dentro. E infatti mi definisco un elettricista - anche perchè ultimamente non so più cosa vuol dire essere un artista. C’è un’invasione biblica di “artisti”; ci vorrebbe il patentino per definirsi tali, come per guidare la macchina.”
L.S.: “I tuoi personaggi son tutti senza volto. Perchè?”
M.L.: “Non ne hanno bisogno, interagiscono con chi si pone davanti al lavoro : uno s’immagina un po’ il volto che vuole. E’ l’immagine più antirazziale che c’è : non son volti bianchi, son trasparenti; son tutti belli, come la neve che ricopre e ripulisce tutte le cose sporche.
Il mio lavoro è bidimensionale come quello degli antichi egizi, un ibrido pittura/scultura. Per questo è sempre stato considerato superficiale; ma come dice Wilde “nella superficie puoi trovare la più grande profondità”. Io ti attiro come il pifferaio magico, usando le tecniche della pubblicità : quelli che i futuristi chiamavano “avvisi luminosi”. Se poi ti fermi alla prima lettura ok, per me va bene; ma c’è sempre una doppia lettura. In realtà le mie son figure senz’anima, difficili da interpretare. Più allegre o più tristi? più musica o più silenzio? non saprei... Come i Beatles canto sia Obladì Obladà sia Helter Skelter, parlo sia alla casalinga di Voghera sia al critico d’arte. E in fondo ho sempre lavorato per un’esigenza personale, risparmiando così un sacco di soldi da dare allo psichiatra.”
L.S. : “Rappresenti un mondo da tempi di vacche grasse. E in tempo di crisi?”
M.L. : “Ho sempre cercato di esorcizzare il dolore con questa apparente allegria; spero che la negatività di questo momento porti riflessione. Quest’anno spengo per un attimo le immagini colorate, tutto questo casino che ormai dava quasi fastidio a me. Ho messo luci colorate dietro figure nere, ispirandomi all’eclisse nel quarantennale dello sbarco sulla Luna”.
L.S. : “I tuoi rapporti col sistema ed il mercato dell’arte?”
M.L. : “Conosco il gioco e i suoi meccanismi. Per qualche anno ho lavorato con mio padre che produceva scarpe : funziona come per le scarpe. Ci vuole una struttura che produce le opere, pubbliche relazioni per gestirle, rappresentanti, mercanti che le fan girare.
Le mie opere son poesia fin quando restan nel mio studio, appena varcano la soglia diventano un prodotto. Che va gestito. C’è chi lo sa fare meglio e chi non sa gestire. Devi esser manager di te stesso perchè, come dice Red Ronnie, “in questo lavoro ci vogliono kharma e culo”. Non conosco altri ingredienti. La mia parte la faccio tutta : lavoro anche di domenica, una cosa che ho preso da Schwarzenegger - “il suo corpo non sapeva che era festa”.”
L.S. : “Per finire, il tuo rapporto con Pavia”
M.L. : “Non capisco se qui mi odiano... Ho mie sculture in tutto il mondo senza alcun problema; due anni fa mi hanno invitato a piazzare due sculture al Castello, e per due volte le han buttate giù. Un gesto da coglioni che mancan di rispetto non tanto per me ma per il lavoro degli altri ; coglioni e vigliacchi perchè protetti dal buio. La prima volta ho risposto con un gesto di pace, la seconda basta : non ce le metto una terza volta per farle buttar giù di nuovo. Così al Castello c’è un basamento tronco a memoria di ciò che illuminava un posto triste, squallido, depresso. Come le luminarie da cimitero al Ponte dell’Impero : mi ero anche offerto di illuminarlo io il Ponte, Zoncada ci avrebbe messo i soldi. Tutto caduto nel vuoto. Certo che se nego l’importanza dell’estetica... Per fortuna alla fine interviene sempre il privato : le sculture volute da Merlino davanti all’ Hotel Moderno sono videosorvegliate, e tutto fila liscio...”
Marco Lodola parte per Venezia. Con l’architetto pavese Carlo Golgi ha studiato gli ultimi dettagli tecnici per l’allestimento dello spettacolare “teatrino”, omaggio a Depero, che porterà in Biennale.
Pochi come lui portano il nome di Pavia in giro per il mondo. E, incredibile, ci torna sempre.