Autore coltissimo, profondissimo, estremamente raffinato. Astrattista sì, ma dotato d’un lirismo, d’una poetica personale non inquadrabile in alcuna corrente. Alcuni lo accostano a Osvaldo Licini , altri a Cy Twombly . E’ semplicemente Raciti, sempre alla rincorsa delle immagini lontane, delle “cose che escono dal quadro”. Nel suo studio di Milano è appesa una citazione dei “Sonetti a Orfeo” di Rilke : “Oh! Quanto deve dileguare perchè lo afferriate!”...
Mario Raciti è un pittore sublime. Artista ormai riconosciuto grande, consacrato da una personale alla Biennale di Venezia del 1986 e da innumerevoli Mostre nelle più prestigiose sedi pubbliche e private, italiane ed estere. Ma non ferma un istante la ricerca.
Qualche nota dal press release della Mostra di Reggio Emilia : “L’esposizione, curata da Sandro Parmiggiani, promossa dalla Provincia di Reggio Emilia, con il contributo di Fondazione Manodori, CCPL, BFMR Dottori Commercialisti, Studio Legale Sutich-Barbieri-Sutich di Reggio Emilia, di Euromobil e di Assicurazioni Generali ripercorre, attraverso 100 dipinti, compresi alcuni polittici di grandi dimensioni, 50 anni di attività (1959-2009) di uno dei pittori italiani di più intenso lirismo.
Nel corso della sua carriera, Mario Raciti (Milano, 1934) ha perseguito con estrema coerenza una poetica che utilizza gli strumenti e le tecniche della pittura per cercare di dare volto - lasciando tuttavia trasparire solo tracce, frammenti di immagini, larve di suggestioni - a ciò che per l’artista stesso deve restare segreto e nascosto, essendo per sua natura indicibile, irrappresentabile nella sua compiuta totalità.
Lo scenario in cui Raciti colloca le sue apparizioni è costantemente un fondo indefinito, da quello grezzo della tela, magari appena segnata da bave sfilacciate di grigi o di marroni, a quello che pare alludere a un liquido amniotico, a una polvere d’acqua e di cielo al di là dei quali s’erge un orizzonte curvo, uno spazio insondabile, lontano da noi.
La pittura dell’artista rivela nel tempo diverse declinazioni. Negli anni Sessanta s’immerge dentro un mondo incantato, di favola, in cui i segni si vanno organizzando in immagini plastiche e allungate, spesso verso l’alto o dentro l’orizzonte (nei titoli Raciti parla di antenne, di sonde, di giostre, di teleferiche, di tunnel), sempre all’insegna dell’ironia (il pittore comunica, in alcuni titoli, che sta cercando di catturare il volto di qualche bizzarro spiritello), che hanno una qualche parentela con il disegno infantile, con le sue rappresentazioni del mondo, e che rendono, con forza straordinaria, l’atteggiamento proprio di quella irripetibile età della vita, quando gli occhi sono sgranati, aperti a ogni incontro e a ogni emozione.
Il decennio successivo - gli anni Settanta - è all’insegna di ciò che Raciti stesso chiama nei suoi titoli "presenze-assenze": ripartizioni spaziali del sogno, segni sottili, eleganti che corrono sulla tela con la forza di un bisturi che scarnifica le cose, e ammassi nerastri che, alla metà del decennio, paiono, nelle lacerate vele bianche che l’artista disegna nello spazio, evocare la memoria e il respiro tragico di Caspar David Friedrich - un altrove, uno spazio "altro" da quello che noi abitualmente occupiamo nel mondo, l’eco, il riverbero di qualcosa che se ne sta fuori, al di là del dipinto.
Negli anni Ottanta, la complessità spaziale aumenta, si frantuma. Raciti si misura con l’evocazione (sempre per frammenti e allusioni) del mito, rivisitando alcune delle vicende (da quella di Icaro a quella di Giove che si fa cigno per possedere Leda), eternamente cangianti nelle modalità di essere narrate, che se ne stanno saldamente dentro l’immaginario umano - di nuovo un "altrove" tenacemente cercato, sognato, qualcosa che non si vede e che non si manifesta, indagati e vissuti attraverso la pittura. Molte delle opere degli ultimi vent’anni recano un titolo (Mistero o Why) che ben caratterizza l’intenzione ultima di Raciti, che ora si avvale di toni più scanditi e caldi. Nelle opere degli anni recenti, infine, rivisita il tema della Crocefissione, con mani scheletriche che emergono dal nulla nello spazio a gridare la loro sofferenza, l’anelito a una impossibile speranza.
Accompagna la mostra un catalogo bilingue (italiano/inglese) Skira, con testi di Sandro Parmiggiani, Flaminio Gualdoni e Klaus Wolbert, oltre a testi teorici e poetici dello stesso Raciti, a due lunghe interviste all’artista, e a un’ampia antologia critica (nell’ordine temporale, Renzo Modesti, Giuseppe Marchiori, Pier Giovanni Castagnoli, Marco Valsecchi, Tommaso Trini, Roberto Sanesi, Luciano Caramel, Roberto Tassi, Miklos N. Varga, Luigi Lambertini, Fabrizio D’Amico, Stefano Crespi, Alberico Sala, Marco Goldin, Franco Rella, Claudio Cerritelli, Mauro Corradini, Angela Madesani, Flaminio Gualdoni, Vittorio Fagone).
Mario Raciti è nato a Milano il 19 aprile 1934. Nonostante la passione per il disegno e la pittura si sia manifestata fin dall’infanzia e dall’adolescenza, e l’artista sia stato tentato di seguire l’altro suo grande interesse, quello per la musica, Raciti frequenta Giurisprudenza, ma dopo la laurea e soli due anni di esercizio della professione di avvocato, ritorna definitivamente alla pittura. Tiene la mostra personale d’esordio alla Galleria Il Canale di Venezia nel 1964, alla quale fanno seguito numerose esposizioni in spazi pubblici e privati (espone ripetutamente nelle gallerie Morone 6, Annunciata e Bergamini di Milano), in Italia e all’estero. Nel 1986, la Biennale di Venezia gli dedica una sala personale, mentre nel 1988 è il PAC di Milano a dedicargli una mostra, seguita, dieci anni dopo, da una antologica al Palazzo Sarcinelli di Conegliano.”